
"Cosa Resterà", Limmara racconta il suo sound
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09/07/2025 | lorenzotiezzi
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In "Cosa Resterà" riesci a toccare corde molto intime senza mai cadere nell'autobiografismo puro. Come riesci a mantenere questo equilibrio tra confessione personale e apertura
universale?
Quando scrivo non parto tanto da me, quanto da una vibrazione interiore che riconosco — un'emozione che mi attraversa ma che so non essere solo mia. Cerco di restare fedele a quella vibrazione, senza dover per forza spiegarla o inchiodarla a un episodio preciso della mia vita. In fondo, le esperienze personali sono solo porte: quello che conta è cosa si intravede oltre. Mi interessa scrivere canzoni che non siano la mia storia, ma che custodiscano un sentire che può appartenere a molti. Per questo cerco sempre una lingua essenziale, simbolica, capace di suggerire più che descrivere. A volte basta un dettaglio — una stanza disordinata, una voce al telefono, un odore — per aprire una memoria condivisa. Penso che la Musica abbia il potere di trasformare il vissuto in qualcosa di più ampio, quasi sacro. In Cosa Resterà, ogni brano è una domanda che mi sono fatto, ma che non ha bisogno di una mia risposta: è lì per chi ascolta, per diventare la sua. Questo tipo di scrittura è il mio modo di mettermi a nudo, ma con pudore, con rispetto, come quando si ama davvero: non serve dire tutto, basta esserci con verità.
“Abbi Cura” sembra rivolgersi a chi ascolta, ma allo stesso tempo parla molto anche a chi
scrive. Ti è mai capitato che una tua canzone ti 'guarisse' mentre la stavi scrivendo?
Abbi Cura è forse l'esempio più chiaro: è una canzone nata in un momento in cui avevo bisogno di fermarmi, di riconoscere una stanchezza più profonda, che non era solo fisica ma anche emotiva, esistenziale. All'inizio sembrava un invito rivolto a qualcun altro, ma man mano che scrivevo capivo che stavo parlando proprio a me stesso, come si parla a un amico che hai dimenticato di abbracciare da troppo tempo. Scriverla è stato come riaccendere una luce dentro una stanza rimasta chiusa. Le parole non mi sono arrivate dall'alto, ma dal basso, da un luogo vulnerabile e autentico. E mentre prendevano forma, qualcosa in me si ricomponeva. Non posso dire che mi abbia “guarito” in senso definitivo, ma mi ha restituito una direzione, un ritmo più lento, più umano. Mi ha ricordato che la cura non è un gesto eroico, ma una pratica quotidiana, fatta di ascolto e di presenza. A volte scrivere una canzone è come farsi trovare, come se una parte di te che avevi perso ti venisse incontro tra le righe. E quando succede, senti che la musica non serve solo a comunicare, ma anche a ricucire.
Il disco ha un respiro internazionale ma una scrittura profondamente radicata. La Sicilia - e
più in generale il Sud - che ruolo ha oggi nella tua visione artistica?
La Sicilia, e il Sud in generale, non sono solo uno sfondo: sono il mio modo di sentire, di guardare, di stare al mondo. Non li vivo come una bandiera da sventolare, ma come un battito sotterraneo che ritorna in ogni parola, in ogni pausa, in ogni nota. Anche quando i suoni si aprono verso altrove — verso l'Africa, il Sudamerica, l'elettronica — c'è sempre una radice che trattiene, che dà peso e verità a ciò che vola. Il Sud è la mia grammatica emotiva, è l'abitudine a convivere con la luce accecante e con l'ombra, con la lentezza e con il desiderio di fuga, con l'amore per ciò che si consuma mentre lo vivi. Questa tensione continua, questa dolce ferita, è ciò che mi spinge a scrivere, non per spiegare il Sud, ma per lasciarlo parlare attraverso le immagini, i silenzi, la musica. Credo che l'universalità non venga dal cancellare le proprie radici, ma dal saperle ascoltare fino in fondo, e se *Cosa Resterà* ha un respiro ampio, è proprio perché affonda in profondità. È da quell'abisso caldo e contraddittorio che nascono le mie canzoni: come piante che si nutrono di un terreno aspro, ma generoso, e che cercano la luce con ostinata dolcezza.
La collaborazione con Shebab Lou Bandy aggiunge un elemento nuovo alla tua narrazione.
Come è nata questa scelta e cosa ti ha lasciato artisticamente?
La collaborazione con Shebab Lou Bandy è arrivata con la naturalezza di un incontro predestinato, come se i nostri mondi si fossero cercati a lungo senza mai incontrarsi. La sua presenza ha portato un respiro nuovo, una forza che ha incontrato la mia, creando un terreno fertile per qualcosa di diverso, ma inevitabilmente connesso. Lui ha un modo di stare dentro la musica che non è mai solo suono, ma una narrazione che fluisce liberamente, che si intreccia con la mia come fili che, pur partendo da strade separate, si ritrovano nel medesimo punto. Questa scelta è nata dalla sensazione che il suo mondo potesse aggiungere una dimensione ulteriore alla mia storia. Lou Bandy è un compagno di viaggio che, con la sua energia e il suo approccio spontaneo, ha fatto emergere un lato più crudo e vivo della musica che stavo creando. La sua voce, il suo stile, sono diventati il veicolo per esplorare territori che non avrei mai pensato di avvicinare, eppure si sono rivelati essere proprio quelli giusti.
Nelle tue canzoni si avverte una certa nostalgia, ma mai sterile. È una nostalgia che guarda
indietro per capire meglio come andare avanti. Hai mai scritto per tentare di salvare
qualcosa che sentivi stesse svanendo?
Ho scritto molte volte per cercare di salvare qualcosa che sentivo stesse svanendo, qualcosa che, in quel preciso momento, sembrava sfuggirmi tra le dita. La nostalgia che si fa strada nelle mie canzoni non è mai un desiderio sterile di ritorno, non è il rimpianto di ciò che è stato, ma la consapevolezza di ciò che, pur cambiando, lascia tracce profonde. È un guardare indietro, certo, ma non per fermarsi, serve a trovare la linfa che mi permette di andare avanti. Ogni cosa che svanisce, in fondo, ti insegna qualcosa, ti rivela un angolo del cuore che non conoscevi. È come se nel perdersi ci fosse sempre un modo per ritrovarsi. Quando scrivo, è come se tentassi di tenere vivo qualcosa che si fa sempre più sottile, un ricordo che sfuma ma che, proprio per questo, merita di essere accarezzato, di essere custodito. Scrivere in quei momenti non è una fuga dal presente, ma un modo di renderlo più pieno, più consapevole. È una riflessione sul passaggio del tempo, su come le cose, anche quando vanno via, continuano a esistere in noi, nei gesti, nelle parole, nei suoni.
In un panorama musicale dove spesso si cerca l'effetto immediato, tu scegli la profondità,
la stratificazione. Ti senti mai fuori tempo rispetto al mercato? E se sì, è una cosa che
rivendichi?
Spesso mi sento fuori tempo rispetto a un tessuto musicale che corre, che sembra voler catturare l'attenzione nel battito di un istante, nel riflesso immediato di un'emozione. E forse, proprio in quella distanza, risiede la mia verità. Non è tanto una sensazione di estraneità, ma piuttosto la consapevolezza che la profondità e la stratificazione richiedono un respiro più lungo, un tempo che non può essere compresso in un battito. La musica che cerco di fare non nasce dalla ricerca dell'effetto istantaneo, ma dalla volontà di lasciare che le emozioni, le immagini, e le sensazioni si sedimentino, si formino, e, alla fine, parlino con una voce che non è quella dell'urgenza, ma della sostanza. Anche se tutto questo può farmi apparire distante dal mio mercato di appartenenza (che spesso celebra la velocità, l'apparenza, l'immediatezza), non mi sento disconnesso. Ho scelto un percorso musicale che non ha paura di farsi attendere, di lasciare che i suoi significati crescano e si evolvano nel tempo. Non mi interessa rincorrere il presente, ma ascoltarlo, decifrarlo, e raccontarlo a modo mio. La profondità richiede spazio per esistere, tempo per respirare.
Hai dichiarato che questo disco segna un nuovo capitolo. Cosa lasci indietro dei tuoi lavori
precedenti, e cosa porti con te come zaino leggero?
Prossimi progetti?
Non lascio indietro i miei lavori passati come qualcosa di superato, ma più come una tela che si arricchisce col tempo, con i colori e con le esperienze che si susseguono. Ciò che lascio, piuttosto, è un certo attaccamento alla ripetizione, ai modelli che un tempo mi rassicuravano, ma che ora sento più pesanti che necessari. In questo nuovo capitolo, c'è un abbandono di quei confini che mi limitavano, lasciando spazio alla libertà di sperimentare, di esplorare nuove strade senza paura. Ciò che porto con me, invece, è la lezione più profonda che la musica mi ha insegnato: la sincerità e la ricerca di una connessione autentica con chi mi ascolta. Porto con me la consapevolezza che ogni passo che faccio è il frutto di una riflessione profonda per cui la bellezza risiede nell'abilità di non appesantirsi, di mantenere il cuore e la mente pronti a nuove scoperte. Tutto ciò che ho vissuto fino ad oggi è una risorsa, un dono, che mi permette di continuare a crescere senza rimpianti e senza il peso di aspettative altrui.
Per i miei prossimi progetti, credo che continuerò a cercare, a sperimentare e a mettere in gioco ciò che sento nel momento presente. Non sono alla ricerca di qualcosa che possa compiacere, ma di qualcosa che mi sfidi, che mi permetta di guardare sempre più in profondità. La musica è il mio cammino, e non so mai esattamente dove mi porterà, ma ogni passo è un'opportunità di scoperta. Quello che posso promettere è che continuerò a scrivere, a comporre, a vivere la musica con la stessa intensità, ma con una libertà che mi permette di guardare avanti, senza paura del cambiamento.
universale?
Quando scrivo non parto tanto da me, quanto da una vibrazione interiore che riconosco — un'emozione che mi attraversa ma che so non essere solo mia. Cerco di restare fedele a quella vibrazione, senza dover per forza spiegarla o inchiodarla a un episodio preciso della mia vita. In fondo, le esperienze personali sono solo porte: quello che conta è cosa si intravede oltre. Mi interessa scrivere canzoni che non siano la mia storia, ma che custodiscano un sentire che può appartenere a molti. Per questo cerco sempre una lingua essenziale, simbolica, capace di suggerire più che descrivere. A volte basta un dettaglio — una stanza disordinata, una voce al telefono, un odore — per aprire una memoria condivisa. Penso che la Musica abbia il potere di trasformare il vissuto in qualcosa di più ampio, quasi sacro. In Cosa Resterà, ogni brano è una domanda che mi sono fatto, ma che non ha bisogno di una mia risposta: è lì per chi ascolta, per diventare la sua. Questo tipo di scrittura è il mio modo di mettermi a nudo, ma con pudore, con rispetto, come quando si ama davvero: non serve dire tutto, basta esserci con verità.
“Abbi Cura” sembra rivolgersi a chi ascolta, ma allo stesso tempo parla molto anche a chi
scrive. Ti è mai capitato che una tua canzone ti 'guarisse' mentre la stavi scrivendo?
Abbi Cura è forse l'esempio più chiaro: è una canzone nata in un momento in cui avevo bisogno di fermarmi, di riconoscere una stanchezza più profonda, che non era solo fisica ma anche emotiva, esistenziale. All'inizio sembrava un invito rivolto a qualcun altro, ma man mano che scrivevo capivo che stavo parlando proprio a me stesso, come si parla a un amico che hai dimenticato di abbracciare da troppo tempo. Scriverla è stato come riaccendere una luce dentro una stanza rimasta chiusa. Le parole non mi sono arrivate dall'alto, ma dal basso, da un luogo vulnerabile e autentico. E mentre prendevano forma, qualcosa in me si ricomponeva. Non posso dire che mi abbia “guarito” in senso definitivo, ma mi ha restituito una direzione, un ritmo più lento, più umano. Mi ha ricordato che la cura non è un gesto eroico, ma una pratica quotidiana, fatta di ascolto e di presenza. A volte scrivere una canzone è come farsi trovare, come se una parte di te che avevi perso ti venisse incontro tra le righe. E quando succede, senti che la musica non serve solo a comunicare, ma anche a ricucire.
Il disco ha un respiro internazionale ma una scrittura profondamente radicata. La Sicilia - e
più in generale il Sud - che ruolo ha oggi nella tua visione artistica?
La Sicilia, e il Sud in generale, non sono solo uno sfondo: sono il mio modo di sentire, di guardare, di stare al mondo. Non li vivo come una bandiera da sventolare, ma come un battito sotterraneo che ritorna in ogni parola, in ogni pausa, in ogni nota. Anche quando i suoni si aprono verso altrove — verso l'Africa, il Sudamerica, l'elettronica — c'è sempre una radice che trattiene, che dà peso e verità a ciò che vola. Il Sud è la mia grammatica emotiva, è l'abitudine a convivere con la luce accecante e con l'ombra, con la lentezza e con il desiderio di fuga, con l'amore per ciò che si consuma mentre lo vivi. Questa tensione continua, questa dolce ferita, è ciò che mi spinge a scrivere, non per spiegare il Sud, ma per lasciarlo parlare attraverso le immagini, i silenzi, la musica. Credo che l'universalità non venga dal cancellare le proprie radici, ma dal saperle ascoltare fino in fondo, e se *Cosa Resterà* ha un respiro ampio, è proprio perché affonda in profondità. È da quell'abisso caldo e contraddittorio che nascono le mie canzoni: come piante che si nutrono di un terreno aspro, ma generoso, e che cercano la luce con ostinata dolcezza.
La collaborazione con Shebab Lou Bandy aggiunge un elemento nuovo alla tua narrazione.
Come è nata questa scelta e cosa ti ha lasciato artisticamente?
La collaborazione con Shebab Lou Bandy è arrivata con la naturalezza di un incontro predestinato, come se i nostri mondi si fossero cercati a lungo senza mai incontrarsi. La sua presenza ha portato un respiro nuovo, una forza che ha incontrato la mia, creando un terreno fertile per qualcosa di diverso, ma inevitabilmente connesso. Lui ha un modo di stare dentro la musica che non è mai solo suono, ma una narrazione che fluisce liberamente, che si intreccia con la mia come fili che, pur partendo da strade separate, si ritrovano nel medesimo punto. Questa scelta è nata dalla sensazione che il suo mondo potesse aggiungere una dimensione ulteriore alla mia storia. Lou Bandy è un compagno di viaggio che, con la sua energia e il suo approccio spontaneo, ha fatto emergere un lato più crudo e vivo della musica che stavo creando. La sua voce, il suo stile, sono diventati il veicolo per esplorare territori che non avrei mai pensato di avvicinare, eppure si sono rivelati essere proprio quelli giusti.
Nelle tue canzoni si avverte una certa nostalgia, ma mai sterile. È una nostalgia che guarda
indietro per capire meglio come andare avanti. Hai mai scritto per tentare di salvare
qualcosa che sentivi stesse svanendo?
Ho scritto molte volte per cercare di salvare qualcosa che sentivo stesse svanendo, qualcosa che, in quel preciso momento, sembrava sfuggirmi tra le dita. La nostalgia che si fa strada nelle mie canzoni non è mai un desiderio sterile di ritorno, non è il rimpianto di ciò che è stato, ma la consapevolezza di ciò che, pur cambiando, lascia tracce profonde. È un guardare indietro, certo, ma non per fermarsi, serve a trovare la linfa che mi permette di andare avanti. Ogni cosa che svanisce, in fondo, ti insegna qualcosa, ti rivela un angolo del cuore che non conoscevi. È come se nel perdersi ci fosse sempre un modo per ritrovarsi. Quando scrivo, è come se tentassi di tenere vivo qualcosa che si fa sempre più sottile, un ricordo che sfuma ma che, proprio per questo, merita di essere accarezzato, di essere custodito. Scrivere in quei momenti non è una fuga dal presente, ma un modo di renderlo più pieno, più consapevole. È una riflessione sul passaggio del tempo, su come le cose, anche quando vanno via, continuano a esistere in noi, nei gesti, nelle parole, nei suoni.
In un panorama musicale dove spesso si cerca l'effetto immediato, tu scegli la profondità,
la stratificazione. Ti senti mai fuori tempo rispetto al mercato? E se sì, è una cosa che
rivendichi?
Spesso mi sento fuori tempo rispetto a un tessuto musicale che corre, che sembra voler catturare l'attenzione nel battito di un istante, nel riflesso immediato di un'emozione. E forse, proprio in quella distanza, risiede la mia verità. Non è tanto una sensazione di estraneità, ma piuttosto la consapevolezza che la profondità e la stratificazione richiedono un respiro più lungo, un tempo che non può essere compresso in un battito. La musica che cerco di fare non nasce dalla ricerca dell'effetto istantaneo, ma dalla volontà di lasciare che le emozioni, le immagini, e le sensazioni si sedimentino, si formino, e, alla fine, parlino con una voce che non è quella dell'urgenza, ma della sostanza. Anche se tutto questo può farmi apparire distante dal mio mercato di appartenenza (che spesso celebra la velocità, l'apparenza, l'immediatezza), non mi sento disconnesso. Ho scelto un percorso musicale che non ha paura di farsi attendere, di lasciare che i suoi significati crescano e si evolvano nel tempo. Non mi interessa rincorrere il presente, ma ascoltarlo, decifrarlo, e raccontarlo a modo mio. La profondità richiede spazio per esistere, tempo per respirare.
Hai dichiarato che questo disco segna un nuovo capitolo. Cosa lasci indietro dei tuoi lavori
precedenti, e cosa porti con te come zaino leggero?
Prossimi progetti?
Non lascio indietro i miei lavori passati come qualcosa di superato, ma più come una tela che si arricchisce col tempo, con i colori e con le esperienze che si susseguono. Ciò che lascio, piuttosto, è un certo attaccamento alla ripetizione, ai modelli che un tempo mi rassicuravano, ma che ora sento più pesanti che necessari. In questo nuovo capitolo, c'è un abbandono di quei confini che mi limitavano, lasciando spazio alla libertà di sperimentare, di esplorare nuove strade senza paura. Ciò che porto con me, invece, è la lezione più profonda che la musica mi ha insegnato: la sincerità e la ricerca di una connessione autentica con chi mi ascolta. Porto con me la consapevolezza che ogni passo che faccio è il frutto di una riflessione profonda per cui la bellezza risiede nell'abilità di non appesantirsi, di mantenere il cuore e la mente pronti a nuove scoperte. Tutto ciò che ho vissuto fino ad oggi è una risorsa, un dono, che mi permette di continuare a crescere senza rimpianti e senza il peso di aspettative altrui.
Per i miei prossimi progetti, credo che continuerò a cercare, a sperimentare e a mettere in gioco ciò che sento nel momento presente. Non sono alla ricerca di qualcosa che possa compiacere, ma di qualcosa che mi sfidi, che mi permetta di guardare sempre più in profondità. La musica è il mio cammino, e non so mai esattamente dove mi porterà, ma ogni passo è un'opportunità di scoperta. Quello che posso promettere è che continuerò a scrivere, a comporre, a vivere la musica con la stessa intensità, ma con una libertà che mi permette di guardare avanti, senza paura del cambiamento.
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